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Queste pagine di ricordi e di cronaca sono scritte, da un medico che m’è amico, anzi che mi conosce, su per giù, da quando sono nato. Egli ha la sua condotta in una piccola città dell’Italia centrale dove per anni e anni i miei solevano andare a villeggiare. Era ed è un uomo tranquillo, bonario e servizievole, che invecchia sorridendo e che dalla sua professione ha tratto l’abitudine d’osservare senza ira gli uomini e i loro casi e capricci, e che tra gli uomini da osservare ha saputo saviamente includere anche sè stesso, pur non avendo (dice) di sè stesso una stima singolare. Cento o centocinquant’anni fa l’avrebbero chiamato un filosofo; ma adesso la parola filosofo ha un significato solenne, dogmatico e quasi papale che proprio non gli si confà.
Anche nella bufera della guerra quando gli uomini rimasti in paese potevano vivere in pace, e nella bufera di questa pace quando anche a restare in paese ci si ritrova in guerra, egli è rimasto sereno, o almeno s’è mostrato sereno ed ottimista. Dice: – Durante la guerra ci avevano predicato di assumere tutti, anche i più fiacchi e i più vecchi, qualità di giovani, anzi d’adolescenti: coraggio, impeto, temerità, baldanza, distacco dagli affetti domestici, odio fino alla ferocia, noncuranza del domani, fede nell’impossibile. Ora ci consigliano, da un mese all’altro, le qualità del-