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che portava sulle braccia quattro grandi barattoli di vetro colmi, mi parve, di marmellata con la loro gialla cuffia di pergamena; e che recava intorno al collo, legati per la coda, due davanti e due di dietro, quattro salami di montagna dalla pelle ormai color d’argento tanto erano vecchi e prelibati. Tutta roba che alla prima occhiata non mi parve di casa mia. Giacinta, spettinata, le maniche rimboccate, la faccia lustra di sudore, appena mi vide, dette un calcio a due prosciutti che scivolavano giù dalla catasta, mi corse incontro, mi pose le due mani sulle spalle, m’intimò: – Zitto! – e mi spinse nel salotto dove, appena ebbe richiusa con cura la porta, m’annunciò trionfante: – Roba del sindaco.

Dovetti fare una faccia più balorda di quella delle galline impastojate perchè Giacinta, pronta sempre ad aspettarsi il peggio dalla mia mediocre intelligenza, s’affrettò a spiegarmi: — Credi che sia roba rubata? L’ha mandata il sindaco, l’ha mandata la moglie del sindaco, supplicandomi di tenerla nascosta noi fino alla fine dei tumulti, – e si tolse dal seno una lettera con cui proprio la moglie del sindaco la supplicava, con ansiose parole, d’ajutarla in quel salvataggio: – Capirai. La casa di Nestore, lo sanno tutti che è sacra. Gli spiegai che a vederci entrare tutte quelle montagne di roba, sarebbe venuta la voglia a chiunque di venircisi a rifornire alla lesta. E mi meritai un altro sguardo di compassione: — Nessuno vede. Dovrei essere matta per

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