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AD APOLLO DELIO 13

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Il primo (1-23), risulta a sua volta di tre parti:

A) Una presentazione d’Apollo ne la sua piena gloria, quando entra, ammirato e temuto, in Olimpo, fra il consenso dei Numi (1-13). È una specie di ex-abrupto plastico. Con esso il poeta colpisce súbito e soggioga la fantasia dell’ascoltatore: egli applica, in anticipazione, la massima di Pindaro:

  Sostegno al saldo atrio del talamo
  confitte voglio auree colonne
  si come per fulgida reggia:
  da lungi visibile dev’essere il fronte
  dell’opera impresa.

B) Di una breve invocazione alla madre del Nume (14-17).

C) Della dichiarazione, che poi diverrà comunissima in ogni genere d’inni, che, per cantare quel Nume, sono dischiuse al poeta innumerevoli strade. E qui si può trovare l’addentellato ai versi 21-23, che in genere si espungono, come interpolati: essi esemplificano l’affermazione del poeta che non può mancar la materia a chi si accinga a cantare Febo. A lui son sacri tutti i monti, tutti i fiumi, tutte le spiagge, tutti i porti, e da ciascuna di queste località il poeta può attingere ispirazione. E chiama il Nume εὔυμνος, cioè «facile a cantare nell’inno»: che io, tenendo conto del πάντως che lo accompagna, rendo, con qualche libertà: sei tutto un inno. Molti secoli dopo, Callimaco dové ricordarsi di questo passo, quando, nel suo inno ad Apollo, scrisse:

Per cantar Febo, al coro non è sufficiente un sol giorno:
egli è già tutto un inno: cantarlo chi mai non saprebbe?

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