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il trionfo di nadina 109

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È un villaggio di pescatori in su le gran dune del mare.

Per due o tre ville signorili, vi sono cinquanta o sessanta casette o meglio capanne con tanto ordine disposte che sembrano piovute dal cielo su quella spiaggia; di ciò solo accorte, cioè di non cadere l’una sull’altra: nessuna in fatti sale più in alto di un piano terreno. Quando vien la state, i pescatori intonacano quelle loro casette, le scopano, vi aggiungono un letto, una tavola, due sedie, alcuna suppellettile. Così affittano pel luglio e per l’agosto. Essi poi dormono o nelle loro barche o in certe capannette di brulla e di cannucce, o mandano l’asino a serenare e ne usurpano il posto. Ma se misero è il luogo, grande è il sole, e, stillante tuttavia delle azzurre acque del mare, batte in sull’aurora la diana alle chiuse imposte delle capanne. Piccole betùlle, civettuole e canore, crescono liete: i tamarischi pallidi e salsi, fanno sottili siepi e qualcuno ne cresce arboreo, anzi gigantesco per la natura dell’umile pianta.

Bellissima poi e alquanto discosta dal villaggio si eleva una gioconda selva di pini: il dolce pino italico, la snella pianta gentile e secolare i cui fusti quasi purpurei e nudi e eccelsi sorreggono un diadema di fronde di smeraldo.

Quei pini, cento e cento, parevano esser corsi per vedere il mare.

Sulla riva si erano arrestati.

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