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Il peccato è agire contro il proprio solito. È una rottura d’equilibrio.

Di qua nasce che quando uno ha peccato (cioè gli rimorde, altrimenti non è peccato), tutta la propria vita pare messa in questione.

Consiglio ai peccatori: non mai fermarsi a metà, ma impegnare tutto se stesso e cercare di darsi il nuovo indirizzo come un’abitudine, di trasfigurare in questo senso specialmente il proprio passato.

Può parere il contrario, ma la cosa che piú fa orrore a chiunque, è di svegliarsi, un mattino, diverso dalla sera prima. Perdere cioè il senso della propria impalcatura.

Qual è la differenza tra un delitto compiuto e uno fantasticato, gustato, amato ma non commesso? Questa: che il primo non potrà piú non essere, e il secondo lascia l’illusione di non averci disturbato la nostra natura. Come coscienza dovrebbero invece darci lo stesso rimorso; ma non ce lo dànno perché nel secondo caso nulla ci vieta di tornare come prima.

Anche in questo il cristianesimo è in gamba: «chi guarda una donna con concupiscenza, ha già commesso adulterio...»

Insomma: la buona coscienza non è altro che l’espressione del desiderio che tutti abbiamo: essere noi — starcene comodi.

Soffrono immensamente di piú i piccoli occasionali prevaricatori che non i grandi delinquenti, e semplicemente perché i secondi ci sono connaturati.

Rimordendoci una mala azione, non è del dolore inflitto agli altri che ci dispiace, ma del disturbo recato a noi stessi. (Cfr. Raskolnikoff).

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