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1938 | 117 |
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L’accettazione della sofferenza (Dostojevskij) è in sostanza un modo di non soffrire. Dunque... Chi si sacrifica non lo fa per lenire la sofferenza di un altro? Che toma come dire: soffra pure io, purché non soffrano gli altri tutto è bene. E se ciascuno s’occupasse di non soffrire lui, non sarebbe piú spiccia?
Ma, appunto, la trovata dostojevskiana è che si cessa di soffrire soltanto accettando. E pare che si possa accettare la sofferenza soltanto sacrificandosi.
In queste cose il torto è di fare il passo piú lungo della gamba. Si accetta di soffrire (rassegnazione) e poi ci si accorge che si è sofferto e basta. Che la sofferenza non ha servito a noi e gli altri se ne infischiano. E allora si digrigna i denti e si diventa misantropi. Voilà.
La cosa piú atroce è sempre il «passare per fessi». Cioè veder negata (vanificata) la propria sofferenza (cfr. 5 ottobre ’38).
16 ottobre.
Non si desidera di godere. Si desidera sperimentare la vanità di un piacere, per non esserne piú ossessionati.
18 ottobre.
Descrivere la natura in poesia, è come quelli che descrivono una bella eroina o un forte eroe.
Riuscire a qualcosa, qualunque cosa, è ambizione, sordida ambizione. È logico quindi ricorrere ai piú sordidi mezzi.
19 ottobre.
Quando si soffre, si crede che di là del cerchio esista la felicità; quando non si soffre si sa che questa non esiste, e si soffre allora di soffrire perché non si soffre nulla.