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202 | 1940 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Pavese - Il mestiere di vivere.pdf{{padleft:206|3|0]] il Poeta s’insignorisse della lingua e dell’arte. Perché di rado nella prima Cantica, e piú di rado nella seconda, gli è forza di contentarsi di latinismi crudissimi, di ambiguità di sintassi, e di modi ruvidi che alle volte guastano l’ultima».
p. 453: «da quali di esse idee piú naturalmente prorompano fantasmi poetici».
p. 458: «D. li serbava; e con essi i significati meno rari nel verbo medesimo di durabilità di tempo, e di costanza e vigore crescente di azione. Indi può intendersi, altrimenti parrebbe enigma, ciò ch’ei diceva al suo Interprete: “che molte e spesse volte faceva li vocaboli dire nelle sue Rime altro che quello che erano appo gli altri dicitori usati di esprimere” (l’Anonimo) “Indi il conflitto d’idee concomitanti prorompe simultaneo e potente dalle sue locuzioni”».
p. 479: «La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu scritta, né mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all’occhio».
Sulla Lingua italiana (scritto in Inghilterra in italiano):
vol. IV, p. 180 (Lingua d’Omero): «nelle parole procede costantemente semplice, e naturalmente grammaticale. Le sue frasi non sono mai troppo pregne di metafore, e non mai applicate a idee metafisiche, né a pensieri o sentimenti che non siano, per cosí dire, tangibili. Cosicché, se vi si togliesse il metro dei versi, e l’Iliade e l’Odissea si riducessero in prosa, parrebbero storie romanzesche e meravigliose come mille altre che a’ di nostri si scrivono in lingue e stile mille volte peggiori...»
«La lingua poetica di Dante... non ha potuto, né potrà mai servire di modello a composizioni in prosa».
p. 197: «Finalmente Tucidide adopera i vocaboli quasi materia passiva, e li costringe a raddensare passioni, immagini e riflessioni piú molte che forse non possono talor contenere; ond’ei pare quasi tiranno della sua lingua. Or il Boccaccio la vezzeggia da innamorato...»
p. 210 (Petrarca): «ma la sua lingua è piú dell’autore che della nazione».
p. 211: «il Villani, il piú idiomatico tra gli scrittori fiorentini».