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Il vino triste [1°]


È un bel fatto che tutte le volte che siedo in un angolo
d’una tampa a sorbire il grappino, ci sia il pederasta
o i bambini che strillano o il disoccupato
o una bella ragazza che passa di fuori,
tutti a rompermi il filo del fumo. «È cosí, giovanotto,
ce lo dico davvero, lavoro a Lucento».
Ma la voce, la voce angosciata del vecchio
quarantenne — non so — che mi ha stretto la mano
nottetempo nel freddo e poi mi ha accompagnato
fino a casa, quel tono da vecchia cornetta,
non lo scordo, neanche se muoio.
Non diceva del vino, parlava con me
perché avevo studiato e fumavo la pipa.
«E chi fuma la pipa» esclamava tremando
«non può essere falso!» Approvai colla testa.

Ho trovato ragazze al ritorno, più aperte, più sane,
colle gambe scoperte — digiuno da mesi —
e mi sono sposato soltanto perché ero ubriaco
della loro freschezza — un amore senile.
Ho sposato la più muscolosa e la più impertinente
per sapere di nuovo la vita, per non più morire
dietro un tavolo, dentro un ufficio, dinanzi ad estranei.
Ma anche Nella fu estranea per me e un allievo aviatore
me la vide una volta e ci mise le mani.
Ora è morto quel vile — quel povero giovane —
capotato nel cielo — no sono io il vile.
La mia Nella accudisce un bambino — non so se è mio figlio —
ed è tutta di casa e io sono un estraneo

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