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78 l’amor coniugale

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quali mirâr le ancelle le membra d’Elena ignude
nei lavacri bagnarsi, blanda Teramna,[1] tuoi,

o qual Laodamia fu vista posare sull’erba
dei verdeggianti prati, vergin fanciulla ancora.20

Dormiva essa ed il sonno con molle alïare di vento
molcevanle sul viso le soavi Napee:

l’una le dita ammirando e l’altra le tenere labbra,
ed il candor dal niveo petto scendente effuso;24

e sollevando il manto che l’altre sue membra copriva
di sua bellezza grande s’ebber le dèe stupore.

E non t’affretti Imene? un premio non vedi al tuo viaggio?
non t’apre Antinïana con sacre faci il passo?28

I soavi non odi accenti, non odi il sussurro
di lievi canti, o Imene, delle parole sue?

Dolce Imeneo, deh vieni, affréttati, o Imene, Imeneo,
corri alla villa, o Imene, vieni ai piaceri tuoi.32

L’ape la rorida stilla deliba, o ne forma il liquore
attico[2] in cerei favi dolce ponendo il miele;

fiore pur tenero Imene deliba, e ne trae l’acidalio[3]
liquor, cara d’amanti, languida delizia.36

.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .[4]


  1. Luogo di Sparta, patria d’Elena.
  2. Dal monte Imetto, nell’Attica, ricco d’api.
  3. Di Venere, cosí detta dalla tonte Acidalia in Beozia.
  4. Nei sedici versi qui tralasciati le fanciulle del coro offrono ad Imene le loro grazie senza veli.
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