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tudini inveterate, che accompagnavano spesso, insieme coll'alterigia atavica, la più crassa ignoranza. " Era da questa ridicola sopravivenza del passato che il Porta traeva le sue più felici ispirazioni, per colpire a sangue in mira- bili capolavori quei boriosi rappresentanti di una incorreggibile va- nità di casta. Ma egli non era un demagogo sistematico. Anzi non si mostrò mai molto tenero per mode o tendenze che venis- sero di Francia. Pur sapendo non essere strisciante e servile, conservò sempre ottime relazioni con famiglie aristocratiche. In Monte Napoleone alloggiava nel palazzo Taverna, ed era intimo della nobile casa, come era amico dei Verri. Alcune sue poesie sono dedicate a nobili famiglie milanesi. Ma nel medesimo tempo quando voleva colpire persone, abitudini, costumi, era inesorabile. Nelle invettive fu flerissimo, quasi brutale (vedere i versi contro Don Carlo Verri in difesa del Bossi; il sonetto ^ sissignor, sur marches, lu l'è marches ") e nella pittura del mondo " di damazz " e dei ^ damm de condizione fu inarrivabile. Il Porta deve aver quindi conservato buoni rapporti con tutti i soci. Lo prova il fatto che quando egli, dopo molti anni, ma- lato e ipocondriaco, si appartò dalla Società, e scrisse quella stu- penda satira " El casin di andeghée " (che, come vedremo, era la Società del Giardino) colpì in lungo e in largo i più diversi tipi di soci, ma non fece nessuna allusione a speciali difetti o mende nobilesche. Si deve dedurre che il Porta abbia trascorso lietamente gli ultimi anni di sua vita nell'intima cerchia dei suoi nuovi amici, e che in mezzo a loro avrà profuso i minuti tesori delle sue osser- vazioni, del suo umorismo, delle sue arguzie, dell'inesauribile sua vena poetica. Si è sempre scritto che il Porta, mentre coi suoi versi faceva ridere gli altri, era di umore triste e melanconico. Anche questo deve essere in parte inesatto. Carlo Porta morì di ancor giovane età per una malattia ereditaria, la podagra. Era naturale che di mano in mano che il male faceva progressi, il suo umore si andasse esacerbando. E quando scriveva quella " lettera a on amìs " Sont staa in lece des dì infilaa Cont la gotta in tutt duu i pee, e, descrivendo i suoi poveri arti ammalati, concludeva che era arrivato a fa compassion Fina a on pret che viv d'esequi.