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XX.
Seguirono dei giorni queti quanto i primi erano stati tempestosi. La vita è piena di tali contrasti «inverosimili».
Pareva che tutta quella burrasca si fosse scatenata apposta per farmi sentir meglio la pace profonda del Presbiterio.
Dopo una settimana io mi chiedeva se, per caso, tutto quell’imbroglio, non fosse un sogno: non aveva più incontrato nè il sindaco, nè il Bazzetta.
Non vedevo che i miei ospiti. Sempre gli stessi volti, sempre le stesse cose, alle stesse ore. In quella dolce uniformità di abitudini nessun altro avvenimento che qualche nuovo piatto, qualche torta di pomi, qualche nuovo guazzetto di Mansueta.
Faceva la mattina di buon’ora grandi passeggiate pei monti, m’inerpicavo sulle vette circostanti, mi ficcava in tutti i burroni, in tutte le macchie; felice se riuscivo a scovarne qualche immagine, schiva dei sentieri troppo battuti, o qualche rima discreta.
Avevo anche ripreso i miei studi di pittura. Nel pomeriggio, appena scemava un po’ il caldo, — scendevo colla mia cassetta alla cascata dove avevo trovato un motivo eccellente d’alberi e di rupi.
Qualche volta il curato veniva a raggiungermi, a vedere «se il dipinto andava innanzi» — ma veramente la sua presenza non giovava punto a mandarlo innanzi, — perchè quando arrivava lui si cominciava fra una pennellata e l’altra a discorrere, — ed erano più i discorsi delle pennellate. Il lavoro era