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Piovve tutto quel giorno.

Per ingannare il tempo mi diedi a frugare nello studio e sfogliare gli antichi registri della parrocchia.

Le generazioni di Sulzena sfilarono davanti a me: — poche stirpi che si riproducono e moltiplicano attraverso i secoli sullo stesso ceppo come gli abeti delle loro montagne. Sempre gli stessi cognomi coi nomi di battesimo che si ripetono alternati da nonno a nipote, per cui si direbbe che lo stesso uomo riapparisca a intervalli.

Alcuno scompare per sempre, non si sa se spento o emigrato, — tal altro riappare dopo un lungo tratto — come lo Strona.

Che misterioso fascino ho provato a ripassare quelle genealogie d’ignoti!

Passai molte ore in questa singolare rivista.

Un accidente venne a distrarmene.

Levando uno dei volumi, ne avevo smosso una fila nella scanzia, che, ad un tratto rovinò a terra.

Nel chinarmi a raccoglierli, vidi che era caduta coi libri anche una scatola di latta e giaceva a terra scoperchiata e capovolta.

Conteneva dei ricordi: una fettuccia tricolore, una palla di fucile, un mazzolino di fiori appassiti, un piccolo volumetto di Tacito, stampato a Parigi nel 1665, logoro e spiegazzato agli angoli, — e finalmente un piccolo astuccio di velluto turchino sbiadito.

La coscienza mi avvertì che stavo per commettere un abuso di confidenza e il mio primo pensiero fu di raccogliere quelle reliquie e di rinchiuderle senza guardarle. Ma fidatevi degli artisti: essi sono avvezzi a coonestare, col pretesto di studiare il

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