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Entrammo nella farmacia. Il ferito era disteso sopra un pagliericcio: coperto di cenci insanguinati: il capo chino sulla spalla sinistra, la bocca intrisa di bava nerastra.

Il dottore De Emma s’inginocchiò e appressò l’orecchio al cuore del giacente.

Batteva ancora.

Le donne dello speziale immobili assistevano con glaciale curiosità alla visita, e guardavano il ferito come se fosse stato un sacco di noci.

Il signor Bazzetta ritto in mezzo a un mucchio di bende, di fiale, enumerava al medico le operazioni da lui praticate, e vi aggiungeva coll’usata garrulità le sue diagnosi e le sue prognosi.

Il dottore ordinò a tre omaccioni, dipendenti del De Boni, che l’avevano soccorso, di sollevarlo nel pagliericcio; e lo fece recare a casa.

Ci andai anch’io.

Bisognò picchiare un quarto d’ora di seguito perchè la fantesca si decidesse ad aprirci.

Deposto che fu sul letto, il dottore esaminò attentamente il ferito: aveva il petto, la schiena, il collo tempestati di trafitture larghe e profonde. Viveva ancora, ma per morire in breve.

Appena gli astanti intesero la gravità del suo stato, sfumarono tutti. Anche la serva, donnaccia ributtante colla quale, dicevasi, il De Boni viveva maritalmente, disperando della ulteriore liberalità del morente, fatto fagotto delle robe sue o non sue, se n’andò senza neppur volgergli uno sguardo.

Rimanemmo noi due col signor Bazzetta che, pratico della casa, aiutò il dottore a trovare le cose necessarie alla medicazione.

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