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È questa l’imagine abbastanza comune, ma giusta, che si affacciò al giovane studente di medicina, davanti all’inesorabile evidenza dei fatti. Si ingolfò dunque nelle nuove dottrine, benedicendo quasi a quel tempo di miserie perdute, che provvidenzialmente lo aveva scosso nelle false o men rette convinzioni acquistate con tanta perseveranza in Italia. Chiamò la fatica a duello, e fece e si mantenne la promessa di lavorare dieciotto ore sulle ventiquattro. Diminuì il budget delle spese quotidiane, diggià abbastanza mingherlino nell’antecedente preventivo, si fece trappista e cenobita, e rinfrancandosi nel pensiero della patria lontana e nell’esempio nobilissimo del padre, trovò la vigoria e la pertinacia per condurre per quasi un anno una vita che, senza quel ricordo e quello stimolo forse avrebbe spezzato anche una natura più robusta della robustissima sua. Ma i libri in Inghilterra, e quelli in ispecie di cui egli doveva riempire la sua cameretta costavano, a que’ tempi, un enorme denaro; non contento di quelle della clinica egli voleva fare esperienze per conto proprio, e queste costavano ancor più dei libri. Ogni nuova riduzione di spesa sarebbe stata l’inedia!
Allora... allora chinò la testa un momento, ma per rialzarla più fiera e più convinta di prima. Scelse fra le lettere di raccomandazione, deposte in fondo al baule, dieci mesi prima con tanta balda illusione, quelle in cui non era precisamente indicato il genere di occupazione che egli si era prefisso ricoverandosi a Londra, e per un mattino di novembre dei più nebbiosi e freddi, uscì per andarsene in cerca di lezioni di lingue e di letteratura. Conosceva, oltre la sua, perfettamente il francese, il tedesco e l’inglese, era coi classici famigliarissimo, e la innata