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Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all’improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, — e riesce spesso a sopraffarla.
Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani.
Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, — eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia.
Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo.
Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall’una all’altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni.
Egli non tardava a scorgerla. Non l’evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll’agilità di una farfalla dall’uno all’altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde.
Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l’altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione.
Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l’alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei.
Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse.