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Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, — questi ossessi dell’idea e dell’immagine, — dovrebbero trovare sempre sull’aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell’uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell’evangelo.
Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi.
Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, — e sempre ne attribuiva il merito al padrone: — don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest’altro.
Ell’erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d’uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano:
— Che dite mai, che dite mai.... un piacere, un dovere....