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XXIX.


Passarono parecchi anni; ed io pure alle volte dimenticai i miei amici di Sulzena e di Zugliano.

Un giorno che passavo da Varallo, mi prese ad un tratto un ardentissimo piacere di rivedere quei luoghi, di ricercarvi un po’ di quella gioventù che mi è fuggita tanto presto. Illusione da cui io mi lascio spesso sedurre, triste illusione, che senza darmi la gioia passata mi fa sempre sentire più grave il tedio presente.

M’inerpicai ancora per quelle care pendici; non mi accompagnava più il buono, il baldo angelo della speranza, ma il mesto rapsode del ricordo e del rammarico mi spingeva frettoloso ed impaziente alla meta. Non avevo più meco la cassetta dei colori; da molto tempo non guardavo più intorno a me, ma frugavo dentro di me, nel cuore, a ricercarvi alcune rime, alcune strofe dimenticate, feccia umana del generoso liquore che un dì in me traboccava.

Quando fui al guado dello Strona, un tristo pensiero mi colse.

Le case di Sulzena apparivano biancheggianti al sole meridiano — il campanile suonava l’Angelus del mattino, — ma quel paesaggio mi sembrò meno lieto di quando l’aveva contemplato al raggio del tramonto.

Dicevo fra me: — li troverò ancora? e in quella piena subitanea d’affetti io mi chiedevo sorpreso come avessi potuto passar dieci anni senza informarmi di quelle persone di cui nutrivo ora un così vivo desiderio. L’animo ha i suoi abissi come lo Strona che a quel punto si profonda nelle viscere del monte per riapparire più giù, passa anch’esso per delle gallerie sotterranee di tenebre, di frastuono, di tedio

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