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Chi parlava con tanta esperienza di causa era il signor Ernesto, il più bel giovane del paese a detta delle mammine, e quello che vestiva con maggior garbo, a detta delle fanciulle. Quel mese e cinque giorni passati a Milano lo circondavano di gloria, come l’aureola dei Santi, ed egli passava la vita, in un ozio senza riposo, bellimbusto davanti alla farmacia e al caffè, giocatore ammanierato e pieno di mentita sbadataggine al tavolino delle carte, annoiato e contento, sbadigliando e pavoneggiandosi, capace di parlare dall’alto al basso anche col re, se lo avesse incontrato, e lasciando sempre nel discorso una filza di sottintesi che davano a pensare agli ingenui suoi compaesani chi sa quanti romanzi pieni di tragiche e sentimentali vicende... tutte nel giro di quel mese e di quei cinque giorni.

Egli si arricciò i lunghi baffi neri, arrotondò coll’indice della destra le tese di un cappello di feltro di una bianchezza insolente, e lasciata cader con grande rumore la stecca che aveva nella sinistra, e, inalberandosi come uno che stia per prendere la corsa, soggiunse:

— Le città... le grandi città come Milano! come Parigi! — non sono stato a Parigi... ma fa lo stesso; chi ha visto Milano ha visto Parigi... miglia più, miglia meno. Il denaro fugge, scappa, scivola, svapora, svanisce, dilegua... lo so io... pur troppo!

E abbassandosi all’orecchio del fabbriciere anziano di S. Gaudenzio; — Soltanto in donne!!!... lo so io...

— Uh! cattivo soggetto!

E una risatina tra carne e pelle piena di libidine senile e di riserva bigotta.

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