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zione de’ suoi affari, aprendo ad essi la via del Ministero.
Ma questa democrazia non serve a gran cosa a quella minorità malcontenta, la quale facendo poco incontro cogli elettori e col pubblico, che, o non sa che esista, o lo sa anche troppo, si vede messa da parte, o almeno alla coda di tutti.
Chi invece vuol essere alla testa (e notiamo che questa voglia è quasi sempre in ragion inversa della capacità), bisogna pure che inventi alcun che di diverso; e questo alcun che è sempre stato, e sempre sarà quella falsa democrazia, che si dice demagogia in politica, ed il cui nome teologico, più facile ad intendersi per chi non sa il greco, è semplicemente l'invidia.
Si capisce che in tutti i paesi del mondo si trovi questa classe di gente senza posizione, invidiosa dell’altrui, irrequieta, e smaniosa di emergere. Si capisce che la condizione comune ispiri consigli comuni; che ne segua il bisogno d’intendersi ed agire d’accordo, di formare società più o meno segrete; e questo è difatti quel che vediamo, e che produce quell’agglomerazione d’uomini d’ogni paese, d’interessi disparati, d’ordinamenti però, e soprattutto di tendenze concordi, conosciuta sotto il nome di rivoluzione cosmopolita. È inutile l’aggiungere che non pongo in questa categoria gli onorati Esuli di varii paesi che lavorano per risuscitare la loro nazionalità.
Questo partito dunque vedendo il Re, il conte di Cavour, e chi sta con loro, sempre fortunatamente a capo dell’impresa, e quel che è più, vedendo che riescono, ne aveva turbati i sonni, e cercava il modo di levare le redini di mano a chi le teneva.
La difficoltà stava nel trovare questo modo, e non era piccola.