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Poiche i tant’occhi homai del cieco Regno
  Vede à sè volti Orfèo, tende le corde
  Perche l’acuto al gràve non discorde,
  Indi à la poppa manca appoggia il legno.
Marita al suon la voce; e ’l grave affanno
  Rimbomba dolce sì per le latebre
  D’Abisso, ch’egli trahe da le palpebre
  Il pianto à quei, che lagrimar non sanno.
In questi muti campi il passo errante
  (Disse) novello Alcide a’ danni vostri
  Non mov’io già, trà questi oscuri chiostri
  D’Euridice mi tragge il bel sembiante.
Deh s’amaste giamai tartarei Numi,
  La sospirata moglie hor mi rendete,
  O me pur, ch’io la veggia ancor tenete;
  Che potran quì bearmi i suo’ bei lumi.
Respirar da l’incarco de’ tormenti
  L’alme, e col molle canto il duro Fato
  Ruppe, ed ottenne il caro pegno amato
  Mosse à pietà le dispietate genti.
Con legge tal, che non si volga à dietro,
  Fin ch’al Regno de’ vivi ei non arrive.
  Se guarda à tergo empio voler prescrive,
  Che la Ninfa ritorni al lago tetro.
Sì del grembo di morte ei trasse fuora
  Il suo tesor; ma poi, ch’à dietro volse
  Lo sguardo; il Destin crudo à lui lo tolse.
  Ahi vero amor non sà patir dimora.
Ma se cotanto ò Rinuccini impetra
  Musa gentil, quai grazie uscir vegg’io
  Da la famosa tua vergine Clio,
  C’hor vince ogn’alma, ed ogni selce spetra?


    Al

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