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MAD. XXXV.
(O mia ventura) il guardo
A me stesso io mi tolsi
Sol per donarmi à voi viva mia luce,
Per cui con mio piacer agghiaccio, ed ardo;
Poscia, che ’n voi riluce
La beltà così bella, ch’ella stessa
Gode vedersi in sì bel corpo impressa
SONETTO LXXIII.
Meco parlar de’ nostri dolci amori
Tirsi gentile; e qui trà l’herbe, e i fiori
Ei dal mio dire, & io dal suo pendèa.
Quì cantando il mio sol spesso dicèa
Più nobil fiamma duo leggiadri cori
Unquà non arse. o fortunati ardori,
O dolce morte, che la vita bèa.
Quì fur più volte raddolcite l’aure
Da quei soavi, e graziosi accenti,
Che i nomi nostri risuonar d’intorno.
Hor languiscono i fior, tacciono i venti,
E null’altro fia mai, che ne restaure
Fuor, che ’l suo desiato almo ritorno.
SONETTO LXXIV.
Ch’à gli spiriti miei dettava Amore,
Mentr’arse meco d’uno stesso ardore
Tirsi, c’hà di bellezza il pregio, e ’l vanto;
Deh |
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