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Deh piangi per pietade hor’ al mio pianto,
  Accorda il tuo lamento al mio dolore,
  Poiche s’arma per me di ghiaccio il core
  Chi pur dianzi avampar mostrò cotanto.
Megli’era, ch’una picciola favilla
  Ardesse eternamente, se ’n brev’ hora
  Devèa restar così gran fiamma estinta.
Filli così dicea dal dolor vinta,
  Mentre scoprìa la fronte sua tranquilla
  Ne’ bei campi del Ciel la vaga Aurora.

SONETTO LXXV.

Q
Uanto me stessa alhor (lassa) ingannai,

Quando destar nel tuo gelato core
  Faville di pietà, se non d’amore
  Ardendo, amando misera sperai.
Ma dolce sì da quegli ardenti rài
  Piovèa ne l’alma il mal gradito ardore;
  Ch’io con quel, che cadèa da gli occhi humore
  Rigido scoglio intenerir pensai.
Grate mi fur de gli amorosi strali
  Le piaghe sì; ch’io mai non chiesi aìta.
  Hor me stessa, ed Amor tiranno incolpo;
E pentita vorrei per fuggir l’ali,
  Ma non salda il fuggir mortal ferita,
  Nè torna pentimento à dietro il colpo.

SONETTO LXXVI.

N
Essun’altro pensier da mè disvìa

Quel sì vivace, che soàve al core
  Spira veleno, e col gradito ardore
  Generoso desir nel sen mi crìa.


F     2          Que-

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