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226 | parte ii. — la grande prateria degli apaches. |
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Il cavallo fuggì rapido come una freccia spruzzandosi il petto di sangue e respirando rumorosamente, ma più liberamente. Finchè gli restava un atomo di vita, non doveva ormai più fermarsi.
Gli Indiani, che avevano allora lasciati i mustani stanchi, balzando su quelli che erano privi dei cavalieri e che perciò erano più freschi, vedendo il messicano guadagnare via, mandarono urla furiose e forse per la prima volta stimolarono i loro corsieri colle aste delle lance.
Il mustano di Sanchez pareva che avesse le ali ai piedi, e precipitava la corsa. Ansava, rantolava, incespicava, ma subito si rialzava e riprendeva l’indiavolata corsa.
Aveva salita una collinetta, e stava per superare la cresta, quando Sanchez mandò un grido di trionfo.
Nella sottostante prateria aveva scorto un grande accampamento indiano, formato da più di quattrocento tende e brulicante di guerrieri, di donne, di ragazzi, di cavalli e di cani.
— Speriamo! — mormorò. — Dio mi aiuti! —
Spronò il cavallo, ma non si mosse: si era arrestato colla testa china e rantolava sordamente, come se il sangue gli montasse alla gola.
Gli caccia furiosamente gli speroni nei fianchi. Il povero animale manda un rauco nitrito e scende la costa di galoppo; era questo l’ultimo sforzo.
Passò dinanzi alle sentinelle prima che queste potessero arrestarlo, e giunto in mezzo ad un gruppo d’Indiani, stramazzò pesantemente al suolo, trascinando nella caduta il cavaliere.
Sanchez, quantunque stordito dall’urto, si rizzò sulle ginocchia, e volgendosi verso gli Indiani che lo guardavano con stupore, chiese con voce rotta:
— È questo il campo del Re della prateria?
— Questo, — rispose una voce. — Che cosa desiderate?
— Parlare col capo!
— Eccomi: parla!... —