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cap. xv. — la fuga di jean baret 221

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Tese gli orecchi e non gli parve di udire la corsa d’altri uomini.

— Perduto per perduto, tentiamo, — disse.

Tagliò senza far rumore la tela, in tutta la sua lunghezza, poi approffitando d’un salto fatto dai portatori per evitare qualche buca o qualche radice, si lasciò cadere al suolo, senza abbandonare il coltello.

Per una fortuna inaudita, era andato a cadere precisamente in un fossatello, che i portatori stavano saltando, sicchè non andò a urtare fra le gambe di coloro che venivano dietro.

I cingalesi, che correvano come lepri, avevano continuato la loro via, senza nemmeno accorgersi di quell’improvviso alleggerimento della barella. Non dovevano però andare molto lontani.

Jean Baret si era alzato precipitosamente e non vedendo nessuno, si era scagliato fra i bambù, correndo a perdifiato.

Aveva percorso due o trecento passi, quando udì i portatori gridare come aquile.

— Se ne sono accorti, — disse Jean Baret, raddoppiando la corsa. — Trovatemi ora! Ho le gambe più buone delle vostre.

Il francese, che era realmente un buon corridore, galoppava sfrenatamente, mentre i portatori, sorpresi da quella misteriosa scomparsa, che aveva per loro del soprannaturale, perdevano il loro tempo a discutere ed a strapparsi i capelli, prevedendo chissà quali terribili castighi da parte del loro feroce principe.

Jean Baret continuò la sua corsa per una

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