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lettere di fra paolo sarpi. | 271 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Sarpi - Lettere, vol.2, Barbèra, 1863.djvu{{padleft:279|3|0]]dato intorno alla potestà ecclesiastica e politica, insieme col decreto della Sorbona; e non so del tutto approvare quella dottrina, la qual mi sembra di poca consistenza e, per dir tutto in una parola, troppo fredda. Ma perchè racchiude più cose vere ed utili, io l’accetto come principio di una trattazione migliore, e spero sarà per accadere che alla fine la Sorbona metterà capo alla verità schietta ed intera, che tanto risplende nei codici Teodosiano e Giustinianeo, e nelle istorie dell’antica Chiesa, che i ciechi ancora possono vederla. Quando l’opuscolo sia stato spedito a Roma, non v’ha dubito che non sia per essere condannato; e ciò pure sarà giovevole, giacchè la Sorbona si troverà costretta a difendere l’opera sua, e a progredire più innanzi. In nessun altro modo i romaneschi scuotono il mondo dal suo letargo, se non quando vogliono che in ogni cosa e si pensi e si parli a seconda del loro arbitrio.
In quanto a me, io vengo chiamato secondo il costume nel Collegio, ed anche più frequentemente, abbondando gli affari. Nulla si è fatto e nè anche pensato intorno a tal cosa, ma soltanto fu nel Senato discusso il dubbio se il Collegio possa produrre le secrete cose nel consiglio di quelli che si chiamano consultori, prima che le si portino al Senato; ovvero se ciò fosse loro da proibirsi senza un precedente decreto del Senato: e infine fu deciso che gli affari secreti vengano da prima riferiti al Senato, e che per suo decreto solamente, e non per altro modo, sia lecito portarli al consiglio. Di qui forse quella voce, di cui mi accenna nella sua lettera, circa all’abbate du Bois: intorno al quale le