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prefazione | lxxxvii |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Satire (Giovenale).djvu{{padleft:87|3|0]]nima e veramente morale. Nè giova il dire che essa può doventare un’arme di private vendette, e offendere i buoni. Quando ciò sia, la punta di quest’arme si ritorcerà sempre contro il petto di chi la brandisce; perchè il maledico invece di dar trista fama a quelli che bistratta, la dà a sè stesso; come è accaduto a Pietro Aretino. E questa mi pare una bastante punizione. Vedete Dante, giacchè la Divina Commedia è per due terzi una vera satira morale. Egli non condanna i vizj in astratto, ma nelle persone, e non teme di registrare i nomi dei Re, dei Papi, degl’Imperatori; infine, di tutti i ribaldi grandi e piccoli che cita al suo banco di giustizia; e non per questo al suo libro fu mai disdetto il titolo di poema sacro, cioè eminentemente morale. Quando alcuno colle sue azioni si è fatta una trista celebrità, e ha, per mo’ di dire, personificato in sè certi vizj, la satira che lo ferisce, non abusa del suo ufficio; nè può esser tacciata di personalità. Tutto al più, potrà dirsi che faccia opera buona se lo risparmia finchè vive; e seguendo l’esempio di Giovenale, aspetta a giudicarlo, quando sia passato, come si dice, alla verità.
Ma io per non lasciare senza risposta alcune difficoltà venute fuori di mano in mano, mi son condotto troppo lungi dalla vera questione; se faccia, cioè, più frutto nel correggere i costumi un tono scherzevole o uno serio. Riattaccando dunque discorso su questa materia, e venendo a