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16 capitolo quinto

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Satire di Tito Petronio Arbitro.djvu{{padleft:72|3|0]]custodi. Ma facendoci essi l’onore di corteggiarci, e perciò non lasciandoci campo a rubare, io abbandonai Gitone con essi, e dileguatomi cautamente montai sulla poppa, dov’era la statua d’Iside, la spogliai della ricca veste, e di un sistro d’argento,12 e molti ricchi mobili dalla cella del piloto levai, indi sì nascostamente per la corda discesi, che il solo Giton se ne avvide, il qual parimenti dai custodi si liberò, e di soppiatto mi tenne dietro.

Appena che il vidi, il furto gli palesai; perlocchè risolvemmo di andar tosto a raggiugnere Ascilto; ma non potemmo alla casa di Licurgo prima dell’indomani arrivare. Trovato Ascilto, in poche parole gli raccontai le rapine, e come fummo il gioco di quegli amorazzi. Egli ci consigliò di prevenir Licurgo in favor nostro, e fargli credere che le nuove licenze di Lica fossero cagione della improvvisa e occulta nostra partenza. E ciò udendo Licurgo, ei promise la sua costante assistenza contro i nemici.

Rimase ignota lo fuga nostra sino a che Trifena e Doride risvegliate si alzarono; perchè avevamo costume di sederci galantemente ogni mattina, mentre si acconciavano. Mancando noi dunque contro il solito, Lica spedì esploratori, massimamente alla riva, e ben seppe che noi fummo alla nave, non però del furto, che ancora scoperto non era, perchè la poppa era verso alto mare, e il piloto assente dal vascello.

Certi finalmente della fuga nostra, Lica arrabbiatone, infuriò grandemente contra Doride, cui l’attribuì. Non dirò le ingiurie di parole e di mani, perch’io ne ignoro le particolarità: sol dirò che Trifena causa di questo guaio persuase Lica a rintracciare i fuggiaschi presso Licurgo, ove forse ci eravam rifugiati, e volle unirsi a lui, onde sopraffarci con le villanie, che ci meritavamo.

Il dì seguente partirono e giunsero al castello. Noi

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