< Pagina:Senso.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.
156 santuario

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Senso.djvu{{padleft:158|3|0]]mai. Il medico dice che bisogna lasciarla fare tutto quel che le garba. Dio la protegga!

La tristezza non s’addiceva al corpo, alla faccia, alla voce del reverendo: aveva bisogno di agitare le braccia, di scattare, di ciarlare, di ridere. Quando pigliava un’aria addolorata, il lungo naso mutava contorno, il profilo non era più lo stesso, e, se non fosse stato il corpo a pertica e il collo da struzzo, tali da farlo riconoscere tra un milione di preti, la mestizia avrebbe potuto servirgli di maschera. Il cordoglio, del resto, lo annebbiava per poco. Un sospiro da mantice, uno sguardo al cielo, una scrollatina di testa, ed ecco era tornata, come per incanto, la bontà chiassosa ed arzilla dell’uomo ingenuo. Si bevette un altro bicchiere, si parlò ancora una mezz’oretta, o, per meglio dire, egli parlava ed io fantasticavo; poi, alle undici, m’accompagnò in camera: niente meno che la camera destinata a monsignor vescovo, quando, ogni cinque anni, si reca a visitare il Santuario.

— Buona notte.

— Buona notte, e veda di principiare bene il nuovo anno con una santa dormita. Io domattina non potrò venire a salutarla: devo uscire per tempo. Si figuri che morì iersera il barbiere, un ciarlone, un burlone, che Dio l’abbia in gloria; ma un fior di galantuomo, e gli volevo bene come a un fratello — e il prete sospirò, mandando dai denti, che aveva

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.