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il demonio muto 215

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II.


Ho trovato, nipote mio, quel che ti devo lasciare. È una cosa che mi salvò quasi la vita.

Prima che tu nascessi, i medici di Brescia e di Milano mi avevano spacciato. Una maledetta malattia nervosa del ventricolo s’era ostinata a volermi spingere al mondo di là, ed ero ridotto, per tutto pasto, a nutrirmi di pezzettini di cacio lodigiano che tenevo in bocca, e di cui a poco a poco succhiavo la sostanza. Pigliai questo malanno, il primo e l’ultimo della mia vita, cacciando nelle valli, quando, dopo avere mal dormito qualche ora in un casolare, alle tre della notte mi alzavo, camminavo fino alle sei in cerca del miglior sito della palude, con il freschetto del dicembre o del gennaio ed una sottile umidità che entrava nelle ossa, e poi dall’alba al tramonto mi piantavo immobile nell’acqua e nella nebbia ad aspettare una folaga, la quale molto spesso non voleva mostrarsi. Mi scordavo di mangiare. Bevevo, io che sono sempre stato

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