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senso 263

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Remigio ogni tanto mi domandava danaro. In principio la pigliava un poco larga: era un debito di giuoco; era un pranzo che doveva offrire ai compagni per non so quale occasione: avrebbe restituito la somma pochi giorni appresso. Finì col chiedere senza pretesti ora cento fiorini, ora dugento; una volta mi chiese mille lire. Io davo, e mi faceva piacere di dare. Avevo dei risparmii miei, poi mio marito largheggiava con me, anzi era lieto quando gli domandavo qualcosa; ma venne un momento in cui gli parve che spendessi troppo. Mi offesi, mi adirai tempestosamente; egli, bonone per solito e pieghevole, tenne duro una giornata intiera.

Quella giornata appunto Remigio aveva bisogno urgente, immediato di dugentocinquanta fiorini: mi accarezzava, mi diceva tante cose belle e con una voce così ardente d’amore, che mi sentii beata di potergli donare uno spillone di brillanti, il quale costava, se mi rammento bene, quaranta napoleoni d’oro.

Il dì seguente Remigio mancò all’appuntamento. Dopo avere passeggiato su e giù per certe callette al di là del Ponte di Rialto una ora buona, sicchè la gente mi guardava con curiosità e con malizia, ed i motti scherzosi mi scoppiettavano intorno, alla fine, con le

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