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trilogia. 217

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Nell’aperta pianura, Laura aveva lanciato il suo cavallo al galoppo, lieta di quello affrettato movimento che la rianimava, lieta del venticello mattinale che le agitava i capelli, facendo svolazzare il velo azzurro del suo cappello, lieta di quella indipendenza quasi maschile, di quella libertà solitaria; ma giunta sul limitare del bosco, si era sentita prendere alle spalle da una grande indolenza ed aveva messo al passo il cavallo. Malgrado la spessezza dei rami intrecciati, il vittorioso sole di giugno penetrava nella foresta e come l’ora si avanzava, tutto dintorno pareva compreso da una beata stanchezza; un odore dolce e caldo di vegetazione rimaneva immobile nell’aria: qualche foglia crepitava sotto il piede del cavallo, qualche ramo sfiorava la fronte della leggiadra amazzone: ella si trovava sotto l’imperio della natura. Andava lentamente, con le mani abbandonate, stringendo appena le redini; era bellissima nel suo abito di panno azzurro cupo, sotto il cappello dalle larghe falde, nella mollezza della gentile persona; bellissima per la luce che scherzava coi leggieri ricci della nuca, dando loro un riflesso dorato, per la luce che le illuminava i contorni del bianco viso, per quell’ombra rosea che discendeva sulle guancie, per quelle labbra vivide e schiuse come il melograno maturo. Nel suo spirito giravano lentamente pensieri calmi e sereni, ella si immergeva quasi in un letargo

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