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trilogia. 219

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Il vento crepuscolare sollevava nugolette di sabbia; sulla spiaggia deserta non appariva alcuno: pure la grande voce del mare, la eterna e sempre vecchia e sempre nuova voce del mare, riempiva quel deserto. Sul cielo, che si arrossava, spiccavano nettamente i profili aspri e severi di uno scoglio a picco che bagnava la sua radice nel mare: uno scoglio nero e pensoso. Quest’ultimo giorno di autunno, un giorno che aveva racchiuse e compendiate in sè le magnificenze della primavera e dell’estate, terminava lentamente, con una maestosa ricchezza di colori; non vi era in quel tramonto un sol rimpianto, una sola malinconia, nulla di riposto o di arcano. Era una pompa libera, aperta, quasi oltraggiosa; un lusso senza scrupoli, che sarebbe passato in un solo istante nell’ombra, senza esitare. Sulla sterminata vastità del mare si svolgeva una tavolozza indescrivibile; sul lontano orizzonte neppure una nuvola; solo un incendio che diventava splendido per l’unità del suo tono.

Ella sedeva là, sopra un sasso, voltata verso il mare e tanto vicina ad esso, che la spuma delle onde più ardite veniva a lambirle la pelle finissima degli stivalini; talvolta col piede ella spingeva distrattamente un ciottolino in mare. Ma invece di guardare lo spettacolo trionfale della natura, ella pensava a sè: pensava alla sua gioventù, che era stata tutta un trionfo, trionfo di ricchezza.

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