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palco borghese. 279

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Eppure — o voi che ogni sera andate in teatro, che vi entrate sbadigliando e ne uscite pallidi di noia, che non avete più curiosità, e non vi dolete di non averne, imparate — eppure, quel palco era tutta una storia, tutto un romanzo, quasi un poema. Il borghese napoletano ama il teatro, ma il suo godimento si raffina quando ci va con un biglietto regalato: era il caso. Era tempo che un giornalista, capitato laggiù, ai Lanzieri, per una combinazione strana, come un greco in America; era tempo che egli aveva promesso un palco al rispettabile negoziante. La famiglia, all’annunzio, era andata in visibilio; le fanciulle ne sognavano la notte e pensavano quale abito era conveniente, come dovevano pettinarsi, che figura avrebbero fatta. Tutte le amiche avevano avuto partecipazione della lieta novella, si chiedevano consigli, si sostenevano discussioni: una signorina che abitava di faccia e che aveva avuto la fortuna di vedere il Sannazaro, era chiamata ogni tanto al balcone per ripetere le più minute spiegazioni. Per otto giorni non si vedevano per casa che nastri, fiori, sciarpe, veli; non si udivano che grandi colpi di ferro sulle gonne da insaldare: lo specchio era consultato ad ogni momento; le sorelle tenevano conciliaboli negli angoli delle stanze; la cugina, invitata, era commossa per la riconoscenza. Ma il palco non veniva. Prima si

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