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SILVIA.

Ad Alberto Errera.

I.

La cittaduzza era silenziosa e deserta in quel lunghissimo pomeriggio estivo; nelle sue strade grigie e ben allineate non appariva un viandante; i balconi delle sue case, alti, dal sesto antico, dalla incurvatura profonda, erano tutti chiusi; le porte brune, massiccie, costellate di chiodi, dal pesante martello di ferro, erano anche esse sbarrate. Invano il cielo si serenava, impallidendo; invano si appressavano chetamente le dolcezze del tramonto, invano giungeva il misterioso e malinconico momento della giornata tanto somigliante all’autunno, tanto somigliante al declinare della vita; i buoni provinciali non si curano di tutto ciò, nulla sanno di tramonti e preferiscono dormire in quelle ore, dormire di quel sonno pesante e morboso che lascia le membra spossate, la bocca amara e la mente confusa. Solo Silvia rimaneva seduta dietro i vetri del suo balcone: aveva rialzata la stretta tendina ingiallita, appuntandola con uno spillo per non lasciarla ricadere, ed immobile, le mani incrociate sulle ginocchia, la testa appoggiata allo sportello

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