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286 dal vero.

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Serao - Dal vero.djvu{{padleft:289|3|0]]puscolo, sotto il lume quieto della lampada, Silvia era sempre la stessa: magra, pallida, fredda, senza attrattive, incapace di desiderarne, provinciale. Ma non soffriva — ella non conosceva e non voleva conoscere, non immaginava nulla di diverso, non fantasticava, non chiedeva mai niente, non si rassegnava neppure: la nota del suo carattere era l’indifferenza. La notte, quando non dormiva, diceva il rosario; quando dormiva, non sognava mai.

Sibbene in quell’anima trasparente, quadrata, vuota di ogni altro affetto, viveva l’unico ed arido sentimento del dovere. Era dovere per lei alzarsi presto la mattina, dirigere le serve che impastavano ed infornavano il pane, dare gli ordini pel pranzo, aprire e chiudere gli armadi; poi invigilare che i letti fossero rifatti, e bene rimboccate le lenzuola, che non rimanesse polvere sui mobili, che fossero battuti e scossi i tappeti. Il sabato ci era da sorvegliare la grande e complicata faccenda del bucato, seguita da quella ancora più importante dall’insaldare: si dovevano distribuire ai poveri le elemosine consistenti in danaro, panni, medicine e commestibili. Alla fine di ogni stagione conveniva fare le conserve dei frutti, rifornire le provvigioni esaurite, discorrere coi coloni, scrivere a quelli che non si erano presentati: alla fine dell’anno fare il bilancio, paragonarlo con quelli precedenti, dare i conti al padre, parlandogli cogli occhi bassi, a voce sommessa, di cifre, di affari, di nuove economie; riceverne in cambio, come unico e venale segno di soddisfazione un titolo di rendita di dieci lire e deporre sulla fredda mano di lui un bacio gelato per ringrazia-

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