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Le stagioni buone o cattive si susseguivano, la pioggia ed il sole si alternavano con dignitosa equità, i treni arrivavano, si rifornivano d’acqua, lasciavano scendere qualche viaggiatore e ripartivano. Silvia lasciava scorrere le giornate, i mesi, gli anni come i granelli del suo rosario fra le dita, quando ne mormorava le avemmaria. Ma i suoi parenti, il padre, la matrina pensavano spesso che Silvia diventava zitellona: i suoi ventinove anni erano scoccati, essa prendeva una tinta gialliccia come lo avorio conservato a lungo, gli angoli delle labbra le si piegavano in una ruga, un’ombra violacea si formava sotto gli occhi. Intanto non si presentava alcun marito probabile, caso serio in una famiglia dove, nel ramo femmineo, si nutrivano queste due grandi tradizioni: non rimaner vecchia zitella e fare sempre un matrimonio di convenienza. Alla fanciulla non fu detto nulla, come era naturale, ma se ne parlò con gli amici di famiglia, col notaio, col cancelliere del tribunale e col parroco; costoro agirono, informarono, paragonarono; i parenti si dettero da fare, qualche pinzocchera se ne mischiò. Infine dopo molti tentativi infruttuosi, fu trovato un galantuomo sui quarantacinque, giudice del tribunale, di mente convenevolmente ristretta, abbastanza brutto, che voleva quietarsi, sposando una fanciulla saggia e senza pretese; egli sarebbe venuto ad abitare in casa della moglie, perchè il padre di costei non poteva privarsene, non avendo altre donne cui affidare i suoi affari domestici, nè convenendogli stipendiarne una. Due stanze sarebbero assegnate agli sposi, una da letto ed una da studio: comune il salone, la stanza

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