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232 La Conquista di Roma

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«Era inevitabile il duello, Sangiorgio?» chiese Scalatelli.

«Inevitabile.»

«Oldofredi è fortunato, Sangiorgio; mi sono battuto con lui, anni sono: m’ha ferito al polso,» spiegò placidamente Scalatelli.

In questa, il conte di Castelforte e Rosolino Scalìa entrarono, cercando con gli occhi Sangiorgio. Il conte conservava la sua freddezza aristocratica che emanava da tutto, dalla magra e alta persona, dalla lunga barba nera che si brizzolava, dalla compostezza un po’ naturale, un po’ letteraria di scrittore e di signore; Rosolino Scalia aveva la sua aria di militare elegante in borghese, il fiore all’occhiello e il mustacchio profumato; ma era anche lui freddo e grave. Castelforte si fermò a parlare con Correr e Scalatelli, mentre Scalìa si cavava il soprabito.

«Ebbene,» domandò Sangiorgio, «che si fa?»

«Nulla ancora,» rispose con riserva Scalìa, «o molto poco.»

Sangiorgio non chiese altro. Il pranzo fra quei tre cominciò in silenzio: Castelforte era sempre contegnoso, Scalìa grave e Francesco Sangiorgio indifferente.

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