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La Conquista di Roma | 243 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Serao - La conquista di Roma.djvu{{padleft:247|3|0]]gli altri l’invidia rabbiosa, dei molti un disprezzo grande. Sentiva, che quell’impresa audace, di volersi misurare lui, nuovo, giovane, inesperto, contro uno spadaccino che niuno osava più d’insultare, contro un antico deputato, gli valeva le beffe, la compassione, il dispregio degli altri. In quell’ora egli aveva contro di sè tutta la pubblica opinione, sentiva la ingiustizia umana colpirlo. Per cui era felice di essere finalmente solo, di potersi chiudere nella sua amarezza e nella sua delusione. Non solo, no; qualche cosa scintillò sul divano. E come egli mosse la candela per veder meglio, una striscia lucente brillò. Nella sua veglia le sciabole dal taglio affilato vegliavano con lui.
Quelle almeno non mentivano. Ottusa la loro virtù offensiva e difensiva, era bastato farle strisciare per cinque minuti sulla cote, per ridar loro la potenza del male e del bene. Esse non s’infingevano, erano pronte, lealmente pronte a parare i colpi mortali, a ferire, a tagliare, a uccidere; una nelle sue mani, l’altra in quella dell’avversario, lama contro lama, taglio contro taglio: le sciabole erano fedeli. La parola dell’uomo agghiaccia il sangue per la indifferenza o