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266 | La Conquista di Roma |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Serao - La conquista di Roma.djvu{{padleft:270|3|0]]no, verso le quattro, nell’aula, come se niente fosse stato, le domande furono poche, dettate da una fredda curiosità: i due padrini sentivano, alla loro volta, l’isolamento del loro primo che giaceva in letto, con la faccia e la testa fasciata, in preda a una febbre violenta. Pochi domandarono di lui: pochi, i quali come gli altri, pensavano che quella ferita fosse meritata in castigo della soverchia insolenza, ma che convenisse essere pietosi anche coi vinti.
E l’entusiasmo per Sangiorgio durò nel pomeriggio, crescendo; aumentò durante il pranzo. Stordito, confuso, ma conservando sempre la sua freddezza esterna che solo uno stupido sorriso veniva a diradare, egli lasciava dire, lasciava fare, accogliendo tutto e tutti, abbandonandosi a quella popolarità novella.
Andò al Costanzi, dove si rappresentavano gli Ugonotti, prese una poltrona di orchestra, ascoltò la musica che non conosceva, come incretinito: dietro di lui, due giovanotti parlavano del duello, accennando a lui, come quello che aveva data la sciabolata a Oldofredi; essi parlavano sottovoce, ma egli udì benissimo, egli che non udiva la musica. Nell’intervallo sentì sul viso il calore