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La Conquista di Roma | 461 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Serao - La conquista di Roma.djvu{{padleft:465|3|0]]ogni volta che arrivava presso la stanza da letto, un senso d’invidia lo afferrava.
Lì dietro, sopra un lettuccio, dove era stato trasportato, colpito da un morbo improvviso mentre discuteva alla Camera, aveva agonizzato un atleta giovane e audace della finanza; lì aveva avuto il supremo bene di poter morire, come un soldato sul campo di battaglia: e Sangiorgio invidiava questo morto. L’usciere ritornò: la Camera accettava le dimissioni, vista l’insistenza; — il presidente aggiungeva qualche amichevole parola di rimpianto, augurando buona salute. Era tutto: ed era finito. Macchinalmente Sangiorgio cercò la medaglina, il suo orgoglio, il suo amuleto, e fra le mani gli parve erosa, assottigliata, come se l’avesse consumata un fuoco. E uscì di là, lentamente, resistendo al forte desiderio di guardare un’altra volta le sale, i corridoi, gli ambulatori, la biblioteca, la buvette, i saloni degli uffici; uscì senza rivederli, avendo paura d’incontrare troppi deputati, di dover dare troppe spiegazioni, di dover stringere troppe mani — e lo sentiva, sì, lo sentiva, se qualcuno, il primo capitato, gli diceva addio, egli sarebbe scoppiato in singhiozzi, senza vergogna, come