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— E si ricordano di qualcuno, morendo? Chi chiamano?

— Tutti, la mamma. Giovini, anziani, plebe, signori, tutti quanti: la mamma — dichiara, don Lanfranchi.

— Signore, Signore, sia fatta la vostra volontà — conclude la figliuola di san Vincenzo de’ Paoli, congiungendo le mani, come in orazione.

Il prete soldato la guarda e non risponde. Un venticello autunnale fa stormire la gran verdezza delle acacie. Dalla porta posteriore del piccolo ospedale, un altro convalescente appare, a passi un po’ vacillanti: non vuole appoggiarsi al bastone

è giovanissimo, ma sei settimane di tifo lo hanno smunto, i suoi folti capelli si son fatti radi, la pelle si è ingiallita, sulle tempie. Pure, sorride a suor Serizia: costei si alza, gli va incontro, gli offre il braccio.

— Stai bene, Guccione, ma non ti reggi in piedi... Ti accompagno...

— Perchè mi chiamate Guccione, madre mia? Mi avete promesso di chiamarmi Filippo... io vi son figlio, lo sapete... — e Guccione parla puerilmente, quasi con un balbettìo infantile.

— Hai ragione, figlio caro. Anzi, se vuoi, ti chiamerò Pippo — e sorride la monaca, mentre il giovanottino convalescente ride, ride come un fanciulletto. Ridono insieme, la paolotta e il soldatino convalescente, tali due creature semplici. Suor Serizia lo fa sedere sul banco, sotto l’acacia. È in piedi, ella, presso don Lanfranchi:

— Qui, siete più tranquilli, è vero? — domanda il prete.

— Abbiamo avuto, un mese fa, delle cattive giornate, don Lanfranchi — narra suor Serizia. — Ve ne erano molti, troppi, di tifosi: e alcuni, così violentemente attaccati, che morivano dopo una settimana... Ora, ora, vi sono i malati, sempre, ma la malattia è meno temibile... abbiamo due buoni medici... Iddio ci aiuta... Ora, sopra, ve ne sono solamente due, che ci fanno tanta pena;

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