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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Serao - Mors tua.djvu{{padleft:175|3|0]]stolo della pace si delineava, chiaro, nell’ombra: ed era, di nuovo, fredda l’aria, ma gli uomini che erano colà, ardevano di giustizia e di pietà, ardevano nella loro anima, che s’inebbriava di sacrificio.

— Amici, abbiamo stretto il patto delle nostre libere coscienze. Ora, dobbiamo separarci. O per la morte o per l’esilio, non ci vedremo mai più. Abbracciamoci, prima di dividerci. Non ci conosciamo: nessuno sa il nome dell’altro: le nostre vie sono diverse. Ma siamo uomini e abbiamo una sola fede. Abbracciamoci e diciamoci addio.

E i tre uomini si abbracciano e si baciano.

— Addio, amici.

— Addio.

— Addio.

— Abbracciate anche me — dice una quarta voce, sommessa.

È quella del padrone della baracca, perduta fra la neve dell’altissimo monte. Egli è presso i tre uomini, a capo chino.

— Sono un poveretto, l’ultimo dei poveretti — e il suo accento è fioco e doloroso. — Questo mestiere che sembra quello di un traditore, di un infame, far passare le frontiere a coloro che sono fuggiti dal campo, io lo faccio per la mia povera moglie, laggiù, in un paesello dell’Umbria, per i miei cinque piccoli figli, che non vedo da un anno. Il denaro che ho preso da voi, quello che ho preso dagli altri, io lo mando, tutto, alla mia famigliuola: tutto per essi, il mio denaro, il mio disonore e il mio rischio certissimo! Giacchè un giorno, presto, lo so, mia moglie e i miei figliuoli, non avranno più mie notizie. Io sarò stato preso e fucilato contro un albero. Mi tengono d’occhio. Hanno ragione. È il mio destino, morire così. L’ho accettato: per la moglie, per i figli. Ma non sono un infame. Sono un poveretto, sono un miserabile.

E l’apostolo della pace, abbracciò strettamente il padrone della baracca. L’ora era giunta. Prima

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