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— È vero: ma ti amo... — ella rispose, covrendolo con uno sguardo amoroso.

— Anche io, ti amo, Loreta — egli balbettò, fremente.

— Meno di me, meno di me — ella proruppe, superba e appassionata.

— Loreta mia!

— Tua, tua, tua! — e la donna gli si strinse addosso, volse a lui la faccia, le labbra protese.

Le due bocche si unirono lungamente, nella notte silente di aprile, fra gli aromi freschi del giardino e l’odore della terra, sotto l’alto scintillio delle stelle. Nel salone, Carolina Leoni, che si era nascosto il viso fra le mani, si levò di scatto, fuggì via, nelle stanze lontane, confusa e vergognosa.

Nel leggiero primo sonno, Antonia Scalese trasalì, si scosse, si svegliò: alla luce fiochissima della lampadetta accesa, sovra una mensola, innanzi a un simulacro dell’Addolorata, ella scorse l’ora all’orologetto, che posava sul tavolino da notte. Le due, E sollevata in mezzo al letto, ella raccolse più stretta la massa dei capelli neri, che tanto la ringiovanivano, dicendo a sè stessa, sommessamente, il suo pensiero, il pensiero che l’aveva bruscamente svegliata.

— Gianni non dorme....

Restò un istante indecisa: ma un solo istante. Con moto rapido, rovesciò le coltri, uscì dal letto, cercò le pianelle coi piedi nudi, con mani rapide si vestì, gettandosi sulla persona una vestaglia in cui si avvolse, mentre di nuovo, diceva a sè stessa:

— Gianni non dorme: Gianni veglia....

Cauta, con passi cautissimi, lasciò la sua stanza

e nella oscurità del corridoio, si diresse, più lenta, verso la stanza di suo figlio: giunse innanzi a quella porta chiusa, si curvò, scorse la

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