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— Oh io, Gianni so sempre, quando tu non dormi... da quando eri piccolo...
— Quando era piccolo, tenevo la tua mano, ti rammenti, mammina, nel sonno?... — e un tremore tenero, era nella sua voce di uomo, fattasi infantile.
— ....e mi stringevi, la mano, Gianni, per sentirmi sempre vicino a te! — ella soggiunse, crollando il capo, con un cenno materno consenziente.
— Sei qui, madre cara... sei qui — egli replicò, guardandola, con un’avidità bizzarra di sguardo.
— Come un tempo, Gianni, come allora: ho sentito che non dormivi, nel mio sonno.
— Mammina, mammina... — egli disse, prendendola nelle sue braccia, tenendola stretta, testa accanto a testa, somigliantissimi. E non piansero, non si baciarono, non parlarono, si tenevano uniti, stretti, così, come se nulla mai potesse dividerli.
— Che facevi, Gianni? — chiese, con un soffio di voce, la madre.
— Scrivevo, mammina — egli le rispose, sciogliendo la cara stretta, passandosi la mano sulla fronte.
— A chi scrivevi? a chi scrivevi? — d’improvviso ansiosa, fu la domanda.
— A nessuno.... lavoravo, per la mia banca.
— Alle due di notte, Gianni? Dillo, dillo, a chi scrivevi, dillo a tua madre!
E si gettò su quelle carte sparse, che erano sulla scrivania, cercò di afferrarle, di leggerle.
— No, madre cara, no — si oppose, fermo, il figliuolo, distaccandone la madre.
— Non posso leggere? Non posso sapere? La tua madre cara? La tua mammina?
E lo scuoteva, con le mani trepide, e si vedeva sollevarsi il suo petto ansante, e tutto il viso era un’ansia.
— Più tardi, mammina... più tardi... dopo — egli rispose, confondendosi.