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— Avevi, mi pare, un convegno.
— Sì, con Luigi Moretti, mio compagno di scuola. Dovevamo andare, insieme, alla serata di chiusura del torneo di scherma...
— Non t’interessava?
— M’interessava. La scherma è un esercizio così nobile e così elegante! Ma ho preferito, stassera, farti compagnia, mammà.
Nel pronunciare la parola mammà, la sua bocca fresca e rossa, prendeva una linea puerile e puerile diventava la sua voce. Balenarono di tenerezza gli occhi di Marta Ardore, ed ella sorrise al diciasettenne: tutto il suo volto d’avorio si colorì di quel sorriso.
— Fausto è via: e tu non devi esser sempre così sola, la sera — Giorgio soggiunse, pianamente.
— Figlio caro, tesoro di sua madre... — ella mormorò, quasi a sè stessa.
Un silenzio avvolse e compose la serenità di quelle due fisonomie, la donna già piegata dalle tristezze dell’esistenza e il giovanetto che portava, in sè, l’immensa speranza della vita.
— Mammà, vuoi chiarirmi qualche cosa? — interruppe quel silenzio, a un tratto, Giorgio Ardore.
— Parla, caro.
— Che significa mai: la guerra è di origine divina?
Ella trasalì, le sue palpebre batterono, due volte, sul suo sguardo che guardava, sperduto, nelle penombre della stanza, ove pareva si avanzasse un bieco fantasma.
— Chi ti ha detto questo, Giorgio? — e non potette impedire alla sua voce di essere aspra.
Il fanciullo arrossì nella sua trasparente carnagione, ma soggiunse, tenace:
— Qualcuno, madre cara, lo ha detto: la guerra, è di origine divina.
— Questa parola è disumana, Giorgio. Chi ti ha detto questo, è un uomo senza cuore e senza coscienza — ella giudicò, duramente.