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— Povera Loreta... povero Carletto — parlò, accorata, quasi fra sè, la madre.
Con un gesto ove entravano il dolore, la fierezza, e anche il fastidio, Loreta fece tacere sua madre. Costei chinò gli occhi. Tacque. Ognuna delle due donne, pur legate dal vincolo del sangue, conosceva la immensa distanza che separava i loro caratteri e i loro temperamenti; e ogni tanto, come quella sera, pur vivendo sotto lo stesso tetto, pur trascorrendo le ore, insieme, si straniavano, prese ognuna dai propri! pensieri, vinta, ognuna, dai proprii sentimenti, che non erano quelli dell’altra. Si straniavano; e talvolta per lunghi intervalli di silenzio, come in quella sera, ognuna dimenticava la presenza dell’altra. Qualche rara parola, molto rara, fu scambiata, fra loro; ed era su cose comuni e indifferenti; e non ebbe nessuna risonanza; e la madre e la figlia lasciarono cadere nel vuoto, queste parole inutili. Solo, verso il tardi, in cui si avvicinava il momento di separarsi, per ritirarsi, ognuna, nella propria stanza, al primo piano di quel grande villino, il cuore materno prese il sopravvento e crollando il capo, Carolina si volse alla figliuola:
— Passerai una cattiva notte, figliuola cara.
— Sì. — Loreta pronunziò, basso, questo monosillabo.
— Vuoi che venga a tenerti compagnia? — e una grande dolcezza era nella materna profferta.
— No, mamma.
— Lasciami venire, Loreta, poiché soffri... — insinuante, soavissima profferta materna.
— Madre, lasciami sola, poiché soffro — ribattè, subito, l’altera fanciulla.
— Loreta, Loreta...
— Tu non potresti nulla, per me — soggiunse, orgogliosamente, la figliuola. — E nessuno, oltre te.
Carolina Leoni non fece che guardare sua figlia. Ma nei suoi buoni occhi era tanta tristezza, che, l’altra soggiunse: