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— Sono un’ingrata, mamma, lo so. Non posso essere che ingrata. Sopportami... sopportami...

-— Pregherò per te, Loreta, stanotte... per lui...

— Prega, sì, prega, poiché il Signore ti ascolta e ti ama, madre. E me e lui, non ci può amare.

Ma quando furono separate, a mezzanotte, e Carolina, rientrata nella sua camera, esalò, nelle orazioni, tutta la pena segreta di cui era penetrata la sua anima, pena venutale non solo dal pauroso tragico evento della guerra, ma da quell’eterno dissidio morale, fra lei e la sua unica figliuola, l’unico tesoro della sua vita di vedova, quando ebbe finito di pregare, a notte alta, il suo animo rimase inquieto. Aveva cercato di calmarsi, mettendo in ordine i suoi cassetti, consuetudine antica, venutale da sua madre, ma le sue mani, ogni tanto, si arrestavano, inerti, il suo pensiero diventava sempre più torbido e ansioso. Desiderava, fortemente, andare da sua figlia Loreta, che era laggiù, sola, nella sua stanza, in fondo all’appartamento; andare, e abbracciarla, e tenerla stretta al cuore, fino a che quel cuore acerrimo di fanciulla si spietrasse e si disciogliesse nelle lacrime. Ma non osava. Aveva promesso di lasciarla sola. Promesso: e intanto il suo sangue, la sua carne, la sua figliuola, pativa ed ella non poteva consolarla. Oltre questo, la teneva un oscuro sgomento, di non so quale oscuro pericolo. La povera donna credeva ai presentimenti; e si rammentava, che a ogni sua tristezza familiare, ella aveva sentito, prima, l’avanzarsi dei caso doloroso. Adesso, in quella notte di giugno, dal fondo del suo essere, saliva questa paura di un ignoto fatale, che la faceva tremare tutta; ogni tanto, ricominciava, macchinalmente, le sue orazioni, ma non poteva condurle a termine; ogni tanto tentava di placarsi, cominciando a svestirsi, per andare a letto, poiché era molto tardi, ma non continuava: fino a che, come se una voce glielo avesse imposto, escita da una bocca senza labbra, come se una mano invisibile l’avesse spinta, ella si slanciò verso il bal-

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