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— Mi è parso strano... Sì, ho anche sofferto, ma poco.

— E a lasciar la tua chiesa, Luigi, la tua bella Santa Maria in Via?

— ... sì. Sono stato triste. Poi, caro, mi è passata la tristezza, lo mi adatto subito...

— Non rammarico, non rimpianto?

— Un poco... molto poco... troppo poco. Io non ho un’anima bella come la tua, Giulio...

— Luigi, Luigi, non ti calunniare!

— Non so voltarmi indietro, fratello mio — disse l’altro, fattosi scuro, guardando a terra.

— Pare che si debba obbedire senza tristezza... pare così... — disse don Giulio, come a sè stesso.

— Pare, Giulio... E tu, quando, a tua volta, ti svestirai, saluterai il tuo altare di San Camillo, il tuo altare, qui, di Santa Maria degli Angeli, e ti licenzierai da monsignor Morcaldi, il tuo patrono, soffrirai, ti conosco... soffrirai molto.

— Oh io sono un essere debole e fragile, Luigi — sospirò il piissimo prete.

— Ma sei un’anima chiara e bella... La mia è nerastra, Giulio... — e guardò l’amico, con occhi luccicanti di affetto.

— Grigia, grigia, talvolta. Luigi! — esclamò, con un tenue sorriso, don Giulio.

Poi stettero qualche tempo in silenzio, nell’ampia, deserta, e triste sacrestia, con quella ombra lontana di Franceschino, che frugava negli armadii, in quella sacristia, fra i legni bruni su cui erano trascorsi i secoli, sotto gli antichissimi oscuri quadri di religione, pendenti dalle scurastre pareti.

— E che farai, al fronte, caro Luigi? — riprese don Giulio, con la sua voce suadente, fissando i suoi occhi soavi in quelli dell’amico.

— Mi mandano, come gli altri, in Sanità... Viene con me, anche don Giovanni Monchi, di Santa Croce in Gerusalemme... Infermieri... assistenti... barellanti... pesante mestiere, Giulio.

— Avresti desiderato esser cappellano? Poter continuare a esser prete? Non ti è riescito, è vero?

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