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Egli ascoltava, silenzioso e serio come davanti al letto d’un malato grave che lo interessasse per la sua malattia soltanto; ma un’ombra gli velava gli occhi: si domandava, suo malgrado, s’ella nel delirio non dicesse una triste verità.

— Tu non mi conosci!...

E davanti a quella donna che egli aveva lungamente e pazientemente amato, credendola sincera e buona, provava l’impressione di trovarsi davanti a una sconosciuta. Ma erano momenti fugaci, ombre che egli respingeva senza neppur esaminarle. Egli non si pentiva; anzi riprendeva coraggio davanti al pericolo, forse anche per un atavico senso di bravura, e sapeva dove voleva arrivare. Come in certi aspri terreni dove crescono soltanto le piante aromatiche, il dolore inutile e il compianto di sè stesso, piante molli e velenose, non allignavano in lui.

Il terzo giorno della malattia di Gavina, mentre egli si decideva a chiamare l’infermiera, comparve provvidenzialmente il signor Zanche.

— Gavina è malata, — disse Francesco aprendogli la porta.

L’uomo non si turbò e non si perdette in vane domande; ma si levò il cappello e portò il parapioggia umido in cucina e lo mise ad asciugare.

— Se posso fare qualche cosa... — disse,

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