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Allora Gavina ebbe la terribile intuizione del vero: comprese che una follia criminosa vinceva a grado a grado la disgraziata; e senza saper come, balzata dall’istinto della difesa, si trovò nella camera attigua, fra la culla e il letto.

Ma l’altra s’avanzava di corsa, ansando come una bestia infuriata: aveva un coltello in mano, col manico entro il pugno e la lama in giù. Gavina sentì le gambe piegarsele e gli occhi le si appannarono; ma come rischiarati da un lampo, in un attimo mille ricordi le balenarono in mente; pensò a Francesco, alla profezia di Luca «tu non farai che del male, a tuo marito, a tutti», e più che il terrore della morte imminente provò il dolore di essere destinata a far soffrire l’unica persona che la amava ancora.

Allora gridò: sentì il suo grido come quello d’una persona che le facesse coraggio, da lontano, e prima che Michela arrivasse a colpirla, si curvò, afferrò la bambina e la tenne sospesa davanti a sè come uno scudo.

— Se tu mi tocchi, te la sbatto contro la testa, — gridò, mentre la bambina si torceva tutta puntandole i piedini contro il ventre e tendendo le braccia alla madre.

— Lasciala! Ti dico, lasciala, rovina della mia casa! — urlò Michela con voce rauca, inseguendola e curvandosele davanti con atto feroce. Ma oramai rassicurata, tenendo sempre

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